domenica 21 ottobre 2012

Dio non gioca a dadi III



"Dio non gioca a dadi, chi gioca a dadi, a poker e a scala quaranta è il diavolo. Dio non gioca perché è il padrone del casinò".
Fabián Vique, Bagliori estremi. Microfinzioni argentine contemporanee, Edizioni Arcoiris, p.32

mercoledì 3 ottobre 2012

I femminicidi di Ciudad Juárez

“Ciudad Juárez è una città dello stato di Chihuahua, nel nord del Messico. Situata al confine con gli Stati Uniti, forma un unico agglomerato urbano con El Paso, Texas. A unire le due città ci sono dei ponti che attraversano il fiume Rio Grande, confine naturale fra gli Stati Uniti d’America e il Messico. Per la sua posizione geografica Ciudad Juárez ha conosciuto negli ultimi cinquant’anni un’incredibile crescita. Grazie ai piani di sviluppo varati agli inizi degli anni Sessanta del Novecento e all’accordo di libero scambio tra il governo federale messicano, gli Stati Uniti e il Canada, entrato in vigore l1 gennaio 1994 (Nafta North American Free Trade Agreement), molte aziende statunitensi hanno stabilito impianti industriali (maquiladoras) oltre il confine, allettate dalla possibilità che veniva loro offerta di sfruttare la manodopera a basso costo del Messico e di importare nel paese latinoamericano macchinari e materiali praticamente esentasse. Da quel momento i pezzi per l’assemblaggio di frigoriferi, televisori, forni, biciclette, eccetera hanno cominciato a varcare la frontiera per finire tra le mani di messicani (in maggioranza donne) che li lavorano per circa 4 euro al giorno, turni di 45 ore a settimana. I prodotti finiti vengono poi caricati di nuovo sui camion che attraversano la frontiera sulla rotta Sud-Nord per essere poi immessi sui mercati occidentali.
E così Ciudad Juárez è diventata una delle città più popolose del Messico in un tempo record. Ha attirato centinaia di migliaia di persone (in maggioranza donne) dagli Stati più sottosviluppati del Messico mer
idionale e dell’America Centrale che, in attesa di varcare il confine per entrare negli Stati Uniti, trovano impiego presso le maquiladoras e si arrangiano a vivere in baracche (tanto sarà per poco) senza acqua potabile e talvolta senza elettricità per andare a popolare le periferie della città ingrossatesi ormai fino a invadere le zone desertiche da cui è circondata. Ma la frontiera fra il primo e il terzo mondo è sempre più difficile da varcare in direzione Nord, e così accade spesso che queste donne si ritrovino a vivere a Ciudad Juárez a tempo indeterminato, almeno finché non finiscono violentate e uccise in un’area abbandonata di periferia, con i vestiti strappati e le ossa lasciate a marcire sotto il sole. Perché nel periodo 1993-2004 circa 600 donne sono sparite e circa 475 sono state ritrovate morte dopo essere state violentate, la maggior parte era di età compresa fra i quattordici e i venticinque anni. Il 60% delle vittime era impiegato presso una maquiladora, tutte quante appartenevano a famiglie estremamente povere, oppure si trovavano a Ciudad Juárez da sole, senza alcun parente che potesse poi denunciarne la scomparsa.
[…] Ciudad Juárez è anche la sede di uno dei più potenti cartelli della droga dell’America Latina affermatosi a metà degli anni Novanta, e per cui il Nafta è stato sicuramente vantaggioso. I narcos messicani hanno fatto fortuna come intermediari grazie alla posizione geografica del loro paese. Trasportano la cocaina e l’eroina dalla Colombia, dalla Bolivia e dal Perù verso il più grande mercato degli stupefacenti del mondo: gli Stati Uniti d’America. La presenza dei narcotrafficanti fa di Ciudad Juárez uno dei territori più pericolosi sulla faccia della Terra, la città che dal 2009 si aggiudica ogni anno il triste primato del più alto tasso di omicidi al mondo. E nella città di frontiera, nel periodo 1995-2000, il 44% delle vittime di omicidi volontari era di sesso femminile.
Luogo simbolo delle relazioni Nord-Sud a livello planetario nonché frontiera per eccellenza, era prevedibile che Ciudad Juárez sarebbe entrata di prepotenza nelle opere di importanti scrittori e giornalisti latinoamericani ed europei. Il mistero che questi delitti sembrano celare può condurre uno scrittore sulle più disparate strade dell’immaginazione. Il tema dei femminicidi ha per esempio ispirato lo statunitense Clanash Farjeon, il quale ha scritto un libro che si intitola I vampiri di Ciudad Juárez e in cui si immagina che dietro i delitti vi siano le azioni di una setta di narco-vampiri.
Ma chi per primo ha scritto un’opera letteraria sull’argomento contribuendo a portare all’attenzione dell’umanità il caso dei femminicidi di Juárez è stato Sergio González Rodríguez. Il suo Ossa nel deserto si inserisce nella tradizione di letteratura dal vero (o non-fiction) che nella storia dell’America Latina ha conosciuto uno sviluppo particolarmente ricco. Poco ha da invidiare questo giornalista messicano a maestri del genere letterario come Rodolfo Walsh, Horacio Verbitsky e Ryszard Kapuściński. Ossa nel deserto è un altro di quei libri che abolisce i confini tra narrativa e cronaca giornalistica, e che addirittura rivendica di appartenere alla prima categoria pur senza rinunciare alla chiarezza offerta dalla seconda. «In Ossa nel deserto l’elemento narrativo è fondamentale» scrive González Rodríguez. È così che testimonianze e copie di documenti ufficiali si intrecciano a pagine di saggistica e a narrazioni di storie personali. Per formare un libro coeso e coerente che senza intoppi procede dalla prima all’ultima pagina narrando un mondo di capri espiatori, testimonianze fabbricate ad arte, insabbiamenti, depistaggi, occultamenti di prove e un numero impressionante di omicidi irrisolti. In Messico la percentuale di delitti impuniti si avvicina al 100%, e questo dato non può essere considerato come semplice frutto dell’inettitudine o della pigrizia degli inquirenti. Il sospetto che sorge, e nel libro Ossa nel deserto la questione è analizzata con estrema scrupolosità, è che molti funzionari pubblici e poliziotti siano sul libro paga dei narcotrafficanti i quali fanno quindi pressioni per evitare che le forze dell’ordine garantiscano la sicurezza della comunità in modo da poter gestire indisturbati i loro affari. Dai libri La città che uccide le donne e L’inferno di Ciudad Juárez nonché dallo stesso Ossa nel deserto si evince che ci sono quattro o cinque individui fortemente sospetti e sui quali negli anni si è fatto di tutto per evitare di indagare. Stiamo parlando di funzionari pubblici, due comandanti di polizia più un altro paio di persone legate al traffico di droga e di gioielli. L’attenzione dei media scatenatasi intorno a Ciudad Juárez all’inizio degli anni Duemila non è stata di sicuro gradita dai locali signori della droga e alcuni avvenimenti fanno pensare che i boss ci tengano a far capire chiaramente ai loro tirapiedi che non devono lasciarsi coinvolgere in questi delitti o che devono essere più discreti. Se a questo clima favorevole all’impunità aggiungiamo la profonda misoginia della società messicana (la donna che lavora, non essendo dipendente dal suo uomo, è considerata insolente) ecco che capiamo perché sia così facile morire a Ciudad Juárez. La misoginia in Messico è un tema di scottante attualità, e una caratteristica della società che purtroppo ancora molti fanno finta di non vedere. Sergio González Rodríguez stesso sottolinea che da parte delle autorità c’è sempre stata la volontà di nascondere il carattere sistemico di questi delitti. Le ricerche di Marcela Lagarde, professoressa di antropologia sociale e sociologia alla Universidad Nacional Autónoma de México, ci permettono oggi di essere più precisi anche nell’uso dei termini adatti a definire una barbarie come quella di Ciudad Juárez. A lei si deve la teorizzazione del termine «femminicidio» in quanto riformulazione della parola «femmicidio» su cui la studiosa sudafricana Diana Russel aveva concentrato i suoi studi di genere a metà degli anni Settanta. Una delle migliori pubblicazioni uscite in Italia sui femminicidi di Ciudad Juárez è il libro edito da Franco Angeli nel 2010 dal titolo Ciudad Juárez, la violenza sulle donne in America Latina, l’impunità, la resistenza delle madri.
Molte piste diverse nel corso degli anni hanno suscitato l’interesse dei giornalisti (le autorità non hanno fatto nient’altro che accusare e arrestare persone risultate poi innocenti), dall’industria degli snuff movies al mercato di organi, dai rituali satanici alle orge nelle ville dei giovani rampolli delle famiglie più influenti del Messico. Peccato che nessuna di queste piste sia stata mai esplorata con scrupolosità. In realtà, come spiega González Rodríguez, pare proprio che negli anni tutti i filoni di indagine siano stati abbandonati non appena si cominciava a sentire puzza di colpevoli. E così i procuratori venivano trasferiti, i poliziotti si vedevano gonfiare ancora di più le buste paga per far finta di non vedere, gli avvocati difensori dei falsi colpevoli venivano minacciati di morte e in alcuni casi uccisi, i giornalisti seri venivano aggrediti, e intanto, tra le promesse disattese di ben tre presidenti della Repubblica, quasi mille donne venivano trovate morte o fatte sparire.
L’esempio di Ossa nel deserto si distingue da tutti gli altri libri scritti sul tema dei femminicidi di Juárez perché capiamo subito che l’autore non va a caccia di colpevoli, ma di cause. Sergio González Rodríguez dimostra che per essere incisivi non c’è bisogno di alzare la voce, non c’è bisogno di additare qualche personaggio più o meno in vista della società di Ciudad Juárez solo per fare scalpore o, peggio ancora, per convogliare gli odi della gente per bene contro il mostro del momento, quello che conta (e lo spazio di un libro offre di sicuro maggiori possibilità di approfondimento rispetto alle pagine di un giornale) è capire cosa c’è dietro a questi omicidi. Quello di Ossa nel deserto è quasi un sussurro, un tarlo che si insinua nella mente del lettore. «Se il narcotraffico venisse debellato, l’economia degli Stati Uniti subirebbe perdite comprese tra il 19 e il 22%, mentre quella messicana vedrebbe un crollo del 63%». Se proprio vogliamo dare la colpa di tutto ai narcotrafficanti allora dobbiamo anche ammettere che essi, con le loro sterminate riserve di liquidità, sono necessari alla sopravvivenza delle nostre economie neoliberali.
Per la cronaca: nessuna delle donne assassinate a Juárez è stata mai accusata di avere alcun legame con i cartelli della droga, di essere coinvolta in attività illecite di altro tipo e questo, in un contesto dove sulle vittime è stato gettato tanto fango, vale bene una certezza. Il merito di un libro come Ossa nel deserto è innanzi tutto quello di riportare su un piano più umanamente comprensibile la tragedia di questi femminicidi, di farci conoscere le vittime attraverso le parole dei familiari rimasti a brancolare nel buio; con le autorità che si preoccupano solo di confondere le acque, l’attesa e l’ansia dopo una scomparsa si fanno sempre più pesanti da sopportare e col passare dei giorni l’unica speranza che resta è di ritrovare almeno un mucchio d’ossa per avere una tomba su cui piangere.

«Sa cosa voglio che faccia? Disse la deputata. Voglio che scriva su questa storia, che continui a scrivere su questa storia. Ho letto i suoi articoli. Sono buoni ma spesso spara a vuoto. Io voglio che spari a colpo sicuro, sulla carne umana, sulla carne impune e non su ombre. Voglio che vada a Santa Teresa e la fiuti bene. Voglio che la morda». La persona a cui si rivolge la deputata è l’equivalente letterario di Sergio González Rodríguez che Roberto Bolaño volle incontrare nel periodo in cui stava scrivendo 2666. Alcuni amici comuni ai due scrittori li misero in contatto, anche se in realtà le pressioni più forti furono fatte dallo stesso Bolaño che aveva preso ad appassionarsi sempre di più alla storia delle donne morte a Ciudad Juárez. I due si scrivevano spesso, e il cileno non nasconde la sua ammirazione per il lavoro del giornalista messicano che lo aiutò anche con suggerimenti di carattere tecnico a stendere parte della sua mastodontica opera-mondo pubblicata postuma. 2666 è un libro diviso in cinque parti (Bolaño stesso specificò che l’ordine in cui si possono leggere è del tutto libero) e una delle più corpose si intitola La parte dei delitti. Si tratta di un blocco di trecento pagine in cui vengono narrati i ritrovamenti di centinaia di corpi di donne violentate e mutilate. La città dove avvengono questi ritrovamenti si chiama Santa Teresa ed è il corrispondente letterario di Ciudad Juárez.
Santa Teresa è il punto verso cui convergono (o da cui partono?) tutti gli innumerevoli rivoli narrativi che scorrono tra le mille pagine di 2666. Bolaño guarda quelle cose e quelle persone che nessuno di noi vorrebbe vedere, e ci restituisce i ritratti di sconfitti (vittime del successo di altri) che pure non cedono mai all’autocommiserazione, ma che portano con orgoglio la loro etichetta di outsider stampata sulla fronte.
2666 è il libro del Male della nostra epoca. Le vicende narrate, infatti, attraversano tutto il Novecento, dal primo dopoguerra alla fine degli anni Novanta. Si parte dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’Olocausto per finire con i femminicidi di Ciudad Juárez.
[…] Indagare sui femminicidi di Ciudad Juárez per uno scrittore significa calarsi nell’abisso per dare al lettore la possibilità di guardarlo con i suoi occhi. Sergio González Rodríguez e Roberto Bolaño hanno scelto di mettere al centro delle loro opere le vittime, gli esclusi, quelli che hanno creduto in un sogno di benessere rivelatosi poi irraggiungibile per loro, i milioni di persone sulle cui spalle è costruito il modello di sviluppo e la ricchezza dei paesi occidentali. I cadaveri di donne lasciati a marcire nel deserto del Sonora rappresentano solo alcuni dei danni collaterali del nostro stile di vita, lo sporco da nascondere sotto il tappeto, i mostri da ricacciare nell’abisso”.

Tratto da “I femminicidi di Ciudad Juárez in Ossa nel deserto e 2666 di Alessio Mirarchi, America Latina e Occidente. Tra filosofia e letteratura, pp. 247-266.
Il libro può essere acquistato su www.arcoirismultimedia.it