mercoledì 25 gennaio 2012

Confini e frontiere - Junot Diaz e i dominicani di New York

“Junot Díaz e i dominicani di New York” di Piero Armenti, pp.137-149


Óscar Wao è poco conosciuto in Italia, ma chi entra nelle librerie di New York vedrà primeggiare tra gli scaffali il volume The Brief Wondrous Life of Óscar Wao o nella traduzione spagnola La breve y maravillosa vida de Óscar Wao. Junot Díaz è l’autore. Giovane scrittore quarantenne nordamericano, scrive in inglese ma parla di America Latina, o meglio di quella parte caraibica a cui è legato: la Repubblica Dominicana. Ha vinto con la tragica storia di Óscar Wao il premio Pulitzer, il più ambito per gli scrittori nordamericani, che consacra la fama verso il grande pubblico. La sua fortuna letteraria dipende proprio dall’oggetto delle sue attenzioni: i dominicani negli Stati Uniti proprio mentre l’emigrazione dal subcontinente verso il vicino del nord è diventata attualità nell’agenda politica, soprattutto per i problemi legati ai clandestini.
La realtà latina negli Stati Uniti confonde diverse generazioni tra loro, ne esce fuori una latinità made in Usa molto articolata. L’emigrazione latinoamericana attuale, con i suoi aspetti tragici, incrocia chi è emigrato anni addietro, le cui seconde generazioni sono ben integrate nel circuito cittadino, ma soprattutto sono in aumento. Come riporta un grafico del “New York Times” la quantità di persone nate fuori dagli Stati Uniti, che ora ha più di 65 anni, ha visto impennare proprio los latinos, e i loro figli oramai si avviano verso la quarantina, l’età anche di Junot Díaz. Si scopre così che rispetto a quaranta anni fa, gli europei sono la metà (anche gli italiani passano da quattrocentomila a duocentomila). I messicani raddoppiano. I canadesi rimangano stabili. I sudamericani decuplicano. E gli asiatici? Decuplicano anche loro. Aumentano anche australiani e africani, ma in pratica l’ultima emigrazione viene da Asia e Sud America.
L’impennata dei numeri fa nascere e crescere un timore ossessivo criptorazzistico difficile da essiccare in un’analisi lucida. Il timore è che gli immigrati latini non si integrino come hanno fatto altri in passato, e contendano l’egemonia dei costumi agli angloparlanti di origine bianca.
La penna di Junot Díaz ribalta l’assunto; dà spazio all’altro punto di vista, non ai minacciati, ma ai minacciosi ispanici, quasi a replicare in forme urbane e contemporanee un eterno ritorno a quell’origine americana che è lotta di bianchi contro tutti per la supremazia, ed è così che attraverso la sua penna prendono forma le paure, le speranze di una delle comunità emigranti più importanti degli Stati Uniti, quella dei dominicani. Se un libro sulla diaspora dominicana, per diaspora intendiamo il processo di emigrazione di dominicani che c’è stato negli anni Sessanta, alla fine della dittatura di Trujillo, ha tanto successo negli Stati Uniti in cui la cultura duale dominante è quella chicana, non è solo perché scritto bene, per la trama accattivante; c’è un motivo ulteriore, o un motivo strutturale che va cercato nel mercato editoriale. È da quello che bisogna partire per interpretare Junot Díaz non come un’individualità letteraria ma come frutto di un’emersione collettiva.
Negli Stati Uniti è venuto fuori un diverso tipo di lettore di origine latinoamericana: è di seconda generazione, spesso con un alto livello di studi; molti sono giovani che frequentano l’università grazie agli sforzi dei genitori e consumano prodotti culturali che aderiscono e raccontano la loro realtà che non è quella del bianco anglicano protestante che vive nella villetta a schiera, ma della vita comunitaria della periferia povera ma vitale delle grandi città, e i conflittuali rapporti con il ramo della famiglia che non è emigrato. Fa da collante la memoria del distacco, dell’immigrazione. I dominicani di seconda generazione sono duali, integrati/disintegrati a seconda del punto di vista, quasi tutti parlano spagnolo (come d’altronde Junot Díaz, che però scrive in inglese), e sono coscienti delle loro origini (potremmo dire senzienti). Questa parte della popolazione è cresciuta a tal punto da esser diventata se non egemonica nella cultura nordamericana, quanto meno consistente, tale da muovere reddito editoriale. Con queste scelte individuali, da homo consumens, vengono indirizzati gli investimenti delle case editrici, in cerca di nuovi talenti latinoamericani di seconda generazione capaci di esprimere e raccontare una identità duale.
È un trend in crescita, se analizziamo i dati demografici osserviamo come il 42% dei dominicani ha meno di 24 anni, e i dominicani (1.217.2555) sono la quinta comunità dopo messicani (28.339.354), portoricani (3.987.947), cubani (1.520.276) e salvadoregni (1.371.666). La maggiore concentrazione si trova tra New York (soprattutto il quartiere Wasghinton Heights) o nel New Jersey.
Ma al di là delle specificità, bisogna superare la semplice equazione etnico-identitaria, secondo cui Junot Díaz esprime la realtà di integrazione/disintegrazione dei dominicani. Non sono solo questi ultimi i principali fruitori dei suoi libri: negli Stati Uniti, il fenomeno migratorio è così pervasivo, determinante, che l’argomento è sempre verde per tutti, è quindi letteratura universale. Junot Díaz racconta la realtà dei dominicani negli Stati Uniti, ma per assimilazione, si potrebbe dire la realtà degli ispanoamericani negli Stati Uniti, e quindi una sfaccettatura dell’identità americana. Paradossalmente non scrive in spagnolo, si esprime in una lingua che non è quella delle origini, usa uno slang americano sporcato ulteriormente dal dialetto dominicano con cui infarcisce la sua narrativa, e la rende autentica: sono le parole che ascolta dalla nonna, è la lingua di strada: Bendición Mamí, Papi, compa’i, tío, Que dios te bendiga.
Il personaggio principale del suo romanzo è Óscar Wao, figlio di dominicani emigrati nel New Jersey. Quella di Óscar è la tipica famiglia a metà tra parenti rimasti in una Repubblica Dominicana calda, da cartolina, ma povera, e Stati Uniti raccontati come terra di opportunità. Óscar si immerge nella terra degli avi quando va a trovare le nonna a Santo Domingo, mentre la vita urbana statunitense si trascina avanti senza grandi emozioni, in quell’immensa provincia del New Jersey, che scorre liscia e moscia. Ma dietro l’apparente neutralità del tempo, si cela un trauma silenzioso. Óscar ha la sfortuna di essere brutto, in un mondo di emigranti in cui dominano donne bellissime che ballano da diosa, e veri maschi, cattivi e pieni di donne, grande orgoglio delle madri. Óscar, semplice nerd, ossessionato dai giochi di società, insegue corpi che non può avere. A ogni mossa riceve un rifiuto. Giorno dopo giorno peggiora, sprofonda nella solitudine di una vita di miserie, in cui è l’amico perfetto delle donne, ma sui cui corpi si divertono altri. Se si guarda allo specchio, vede riflesso un bamboccio troppo grasso, con un viso senza grazia, poco interessante. Per passare il tempo si getta nella narrativa: scrittore di libri di fantascienza, che non verranno mai pubblicati. La sua è una bocca che cerca labbra che non riesce a trovare. La sorella e il suo amico (vero macho) assistono impotenti alla débâcle di un giovane dominicano disperato, che tenterà anche il suicidio. È la maledizione che perseguita la sua famiglia, la malasorte, fukú, che colpisce la madre (ammalata di cancro), la nonna (altra vita di stenti) e gli altri avi, in una dissacrante riproposizione di una epopea familiare, seguendo i canoni del Márquez di Cent’anni di solitudine, ma ribaltandoli nel tragico. Ma c’è sempre un gesto eroico che può riscattare dal torpore del non senso. E anche nella vita di Óscar arriva il momento, e Junot raggiunge l’apice. Nella sua Santo Domingo si innamorerà di una donna pericolosa, consumata, di un militare, rappresentativa e caricaturale dei tropici peccaminosi inseguiti da schiere di attempati europei e nordamericani.
Fa da sfondo la Repubblica Dominicana del dittatore Trujillo (1930-1961), che dominò per oltre trenta anni il paese come padrone assoluto, circondandosi di un harem di donne bellissime a dispetto della moglie non particolarmente avvenente, un paese corrotto di cui ha fatto un ritratto, nella fase discendente della dittatura, Mario Vargas Llosa ne La fiesta del chivo.
Dalla lettura critica del testo ne deriva innanzitutto una visione caricaturale e veritiera dell’archetipo dominicano di prima generazione, trapiantato dalla povera Santo Domingo ai quartieri popolari del New Jersey. Ne esce fuori un prontuario interpretativo molto piacevole, e condizionato dal maschilismo. Il maschio, appunto, è dominante, picchia, conquista, seduce, abbandona. «Tu tá llorando por una muchacha, dale un galletazo a ver si la putica esa te respeta».  A consigliare di picchiare la propria donna non è un uomo, ma paradossalmente sono i consigli della madre al figlio, deluso per amore: picchiala per farti rispettare. Ma altrettanto caricaturale è l’immagine della donna. La dominicana picchiata e felice diventa una tipologia: «Maritza era una de esas muchachas a las que les gusta que los novios les peguen, ya que lo hacían todo el tiempo». La regola prima per una vera donna è mettere in risalto la propria femminilità con orgoglio quasi patriottico. Nella parte dedicata alla madre di Óscar si legge: «Tanto ha cambiado en estos meses, en mi cabeza, en mi corazón. Rosío me hace vestir como una “muchacha dominicana de verdad”. Ella es la que me ayuda a arreglarme el pelo y a maquillarme y, algunas veces, cuando me veo en el espejo, ni me conozco». Il clichet della figlia dominicana è altrettanto rivelatorio: è quello della schiava perfetta. «No saben lo que es ser la hija dominicana perfecta, lo cual es una forma amable de decir la esclava dominicana perfecta». Ma l’archetipo salta se ti trovi a New York, dove la donna lavora, è indipendente, le pressioni sociali e familiari diminuiscono, e allora si può aderire ad un modello di riferimento che non è più quello dominicano di provenienza, incolto e povero, della schiava, ma emancipato: la stessa sorella di Óscar vive il mutamento, e viene descritta come «una de esas dominicanas duras de Jersey, corredora de largas distancias, con su propio carro, su propio talonario de cheques, que le decía “perros” a los hombres y se comía al que le daba la gana sin una gota de vergüenza, especialmente si el tipo tenía baro». Baro sono i soldi, era ricco.
Ma da contraltare alla donna bella, felice e spesso picchiata, c’è la scena disperata che si guadagna Óscar, perché fa pena davvero un dominicano senza donne, a cui tutti dispensano i propri consigli di mascolinità, compreso il donnaiolo zio Rulfo, dal linguaggio colorito: «Escúchame palomo, coge una muchacha y méteselo ya. Eso lo resuelve todo. Empieza con una fea. Coge una fea y méteselo», un esempio di dominicano vincente: zio Rulfo ha quattro figli con tre mogli diverse, simbolo assoluto di virilità. Dunque se l’uomo dominicano deve controllare i ventri di tante donne, deve anche dedicarsi alle gioie del sesso il prima possibile, pena diventare bersaglio di scherno da parte degli amici, come si vede in questa conversazione di Óscar: «Oye, alguna vez en la vida has probado chocha? Le preguntaba Melvin, y Óscar sacudía la cabeza y le contestaba con decencia, sin importar cuántas veces Mel repitiera la pregunta. Debe ser lo único que no has comido, no? Harold comentaba, Tú no eres ‘na dominicano, pero Óscar insistía con tristeza, Soy dominicano, dominicano soy».
Sullo sfondo, coprotagonista assieme a Óscar Wao è il dittatore Trujillo. «El Dictador más Dictador de todas las Dictaduras de la Historia. Era un país, una sociedad, diseñada para que fuera prácticamente imposible escapar. El Alcatraz de las Antillas». Il dittatore diviene una caricatura crudele del tipo dominicano, è un uomo delirante nella pretesa di avere tutte le belle ragazze dell’isola, perché tutto doveva essere suo:

Trujillo pudo haber sido un Dictador, pero era además un Dictador Dominicano, lo que es otra manera de decir que era el Bellaco Número Uno del País. Creía que todo el toto en la RD era prácticamente suyo. Es un hecho bien documentado que en la RD de Trujillo, si uno era de una clase dada y dejaba a su hija linda cerca de El Jefe, a la semana estaría mamándole el ripio como una profesional […] Era parte del precio de vivir en Santo Domingo, uno de los secretos mejor conocidos de la isla.

Il dittatore è padrone di tutto, e molti sono costretti a emigrare; per il dominicano lontano dall’isola, magari sottoposto ai ritmi di vita della fredda New York, Santo Domingo, seppur povera, rimane la tappa ideale in cui trovare riparo e cura. Una verità di ritorno al piacere, alla spontaneità, che è presente nel libro di Junot Díaz (Óscar Wao d’altronde cerca lì riparo contro i suoi insuccessi sentimentali, e lì riesce a trovare il suo unico amore). Basta accendere una radio ispanica di New York, ed è facile ascoltare una conversazione del genere che riportiamo. La donna si domanda perché suo marito si comporti male tornato a Santo Domingo, insegua altre donne, la abbandoni e se ne lamenta. Con un’ingenuità tipica maschile, il conduttore difende la categoria: «Ma tu lo sai, tu lo sai quant’è dura la vita per noi a New York, costretti a lavorare tanto. Quando allora torni a casa, ben pettinato, profumato… tu sai... queste cose succedono, è normale, magari tua moglie è in famiglia, o non è venuta, ti senti forte, vuoi tornare a vivere».
Concludiamo con una domanda, è possibile considerare ispanoamericano un narratore che si esprime in inglese, e che neanche conosce lo spagnolo? Pur non volendo affrontare in questa sede questioni più complesse quali la lingua, la letteratura e l’identità, è utile dire che senza alcun dubbio l’incremento della seconda generazione di latinoamericani negli Stati Uniti è un fatto che costringe il letterato a misurarsi con un panorama dinamico e soprattutto transnazionale, in cui la letteratura latinoamericana non necessariamente sarà in lingua spagnola, ma non per questo sarà meno ispana. In tono polemico, in un’intervista a “El País”, alla domanda di cosa significasse vincere il Premio Pulitzer, Junot Díaz ha risposto: «Espero que arroje algo de luz sobre los escritores latinos de EE UU, que en mi opinión son ciudadanos de segunda en la república de las letras norteamericanas y latinoamericanas». Riguardo invece la tradizione letteraria latina negli Stati Uniti l’autore ha le idee ben chiare: «Creo que está todavía por surgir. Constituimos un canon disperso. Están los chicanos, los escritores de Nuevo México, los caribeños. Yo hablaría de textos, más que de escritores». Sarà allora Junot Díaz lo scrittore capace di capitanare la ribalta degli ispanici negli Stati Uniti? Di inaugurare una positiva stagione letteraria utile anche a condizionare l’agenda politica nei confronti degli ispanoamericani, e la loro porzione più debole: i clandestini?

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