sabato 31 dicembre 2011

Tirando le somme...

Siamo giunti alla fine di quest'anno, ed è quasi un imperativo morale il dover fare un resoconto di quello che in negativo e in positivo ha caratterizzato questo 2011 che se ne va.
Non è stato un anno facile, le arrabbiature, le delusioni, i problemi di vario tipo sono stati tanti. Le soddisfazioni non sono mancate e devo ringraziare tante persone che hanno reso possibili mete e traguardi raggiunti, ed in tal senso il primo nome che mi viene alla mente è quello di Loris Tassi, perchè senza di lui, la sua amicizia e il suo entusiasmo non avrei conosciuto persone e parole che oggi sono accostate al marchio Edizioni Arcoiris. Ringrazio Maria Rossi per avermi permesso di pubblicare un libro su una tematica che per motivi personali mi tocca profondamente. Grazie a tutti coloro che hanno collaborato con me e con la Arcoiris, grazie agli autori e ai traduttori, grazie ai recensori, grazie a coloro che mi hanno sottoposto i loro scritti sperando di vedere le proprie opere pubblicate. Grazie ai clienti per i quali abbiamo lavorato e sudato e che poi non ci hanno pagato, grazie ai clienti che tornano da noi perchè amano la nostra qualità e professionalità. Grazie ai miei genitori, senza i quali non sarebbe mai stato possibile nulla di tutto ciò che ho fatto nella mia vita, grazie a mio fratello perchè è un fratello da 110 e lode, grazie a Carlos che resta al mio fianco amorevolmente nonostante io sia come sono. Grazie alle persone che mi hanno fatto del male, magari senza volerlo, ma hanno comunque segnato la mia vita. Grazie a te nonna, perchè sei sempre e perennemente con me. Grazie alle mie due cagnette perchè mi regalano amore incondizionatamente. Il grazie finale va a me stessa, perchè, concedetemelo, sono una persona meravigliosa e merito tutte le cose migliori al mondo.
E come ogni anno tutti ripetono a tutti: felice anno nuovo e che il 2012 sia un anno sereno, con salute, soldi per tutti, pace interiore, tanto lavoro, infinito amore e nuove parole da leggere...

venerdì 23 dicembre 2011

"La piena" di Carlos Dámaso Martínez

“Ancora una volta arrivavo a godere di un momento – come spiegarlo –, di una situazione sorprendente, quasi inattesa, ma che in qualche modo esisteva in me come un’impronta diffusa, come una bruma a lungo desiderata che, un po’ come l’oscillazione del tergicristallo, andava aprendosi a ondate su un sentiero che non aveva ancora un punto d’arrivo o una destinazione ben chiari”.

Con immenso orgoglio presentiamo “La piena” di Carlos Dámaso Martínez (titolo originale La creciente), primo volume della Collana Gli eccentrici diretta dal prof. Loris Tassi (docente di letterature ispanoamericane all’Università Orientale di Napoli), tradotta dallo spagnolo da Francesco Fava e Giulia Failla, con introduzione della prof.ssa María Cecilia Graña, docente di letterature ispanoamericane presso l’Università di Verona. La traduzione di quest’opera è stata resa possibile dal contributo del Programa Sur, indetto dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Argentina e che mira a diffondere la letteratura argentina in tutto il mondo.

Riportiamo di seguito alcuni passi dell’introduzione della prof.ssa María Cecilia Graña: “I racconti e i romanzi di Carlos Dámaso Martínez (Córdoba, Argentina) si muovono tra generi diversi e creano nella loro prassi narrativa la propria teoria. Dámaso Martínez costruisce un tessuto discorsivo originale che di solito si apre o viene innescato da qualche stimolo della realtà, si mescola con questioni autobiografiche, fa slittare i confini tra i generi e si lascia condurre o si distanzia da un insieme di letture legate all’argomento portante.
La piena è costituito da quattro racconti (“Come una visione”; “Il resoconto impossibile”; “Incontri velati” e “I giorni dell’Eden”) e una nouvelle (“La piena”) che apre il volume. La raccolta è di particolare interesse per il lettore italiano in quanto in alcuni racconti viene mostrato uno squarcio paesaggistico, sociale e linguistico della provincia argentina, altrimenti poco rappresentata nelle narrazioni tradotte in Italia. Inoltre la serie di testi, dalla struttura molto accurata, offre una modulazione peculiare del genere fantastico (genere del quale Carlos Dámaso Martínez si è occupato anche come critico), al quale le epigrafi fanno riferimento.
Di solito, la spazialità delle narrazioni si riferisce a Buenos Aires e Córdoba. Tra le due città appare una dialettica evidente in “La piena”, perché il narratore protagonista va e viene dai due luoghi; e, anche se in “Come una visione” lo spazio non è particolarmente identificato (sebbene ci siano indizi per dire che è Buenos Aires, perché si parla della «strada più lunga del mondo», cioè la Avenida Rivadavia), pure in esso si trova un condor che è stato portato da Córdoba. Invece in “Incontri velati” tutto avviene a Buenos Aires, e lo dimostrano i riferimenti concreti a quella città: la Plaza de Mayo, il Bar Británico, il Parque Lezama, la strada Necochea, l’Hospital Argerich. Ne “I giorni dell’Eden” siamo nelle sierras di Córdoba, spazio segnalato, nel racconto, da due toponimi: Cruz del Eje e La Falda.
La spazialità segna, come è stato detto, la curata composizione del volume La piena: «La lettura mette in evidenza un itinerario interno significativamente chiastico: il primo racconto si svolge nelle sierras cordobesi così come l’ultimo; il secondo e il penultimo sono ambientati a Buenos Aires e il terzo racconto, che occupa il centro del libro, sospende i riferimenti spaziali e mostra una zona geograficamente indefinita...».
È noto che la letteratura fantastica ritaglia la realtà che rappresenta a partire dal nostro mondo; ma quell’immagine crea uno scarto rispetto al reale così come lo conosciamo, scarto che il lettore avverte anche grazie allo sguardo di stupore, sorpresa o terrore dei personaggi o del narratore del testo. E quei testimoni di qualcosa che esula dal loro (e dal nostro) paradigma di realtà rimangono spaesati e afasici, molte volte incapaci di utilizzare l’unico strumento che potrebbe spiegare ciò che è indicibile. Ma il racconto fantastico è appunto una narrazione raccontata da chi ha assistito a qualcosa di strano, di bizzarro, di meraviglioso o di così impossibile che non riesce a farlo entrare in categorie conosciute.
All’atmosfera fantastica contribuisce nei racconti l’attrazione erotica esercitata dai personaggi femminili sui maschili, una sorta di incantamento ipnotico. Così l’erotismo si lega a una storia di iniziazione in un albergo elegante, che con il passare del tempo è diventato l’ombra di ciò che era nella Belle époque, mentre i protagonisti di quel ricordo sono intravisti oggi come dei fantasmi nella memoria del protagonista, ora adulto (“I giorni dell’Eden”). Qualcosa di simile succede in “Incontri velati”, perché l’incontro del protagonista con un amico dopo anni di distacco è sconvolgente, in quanto l’amico forse un desaparecido riappare come un Dorian Gray, uguale fisicamente a com’era anni addietro. Questo «spettro conservato nel ricordo», porta il protagonista a visitare una casa di strane dimensioni e forme, dove le stanze sono occupate da una variegata e surreale umanità.
Ne “I giorni dell’Eden” e “Incontri velati” la storia argentina preme dietro la narrazione: il peronismo nel primo racconto, la dittatura del ’76 nel secondo. Il passato, che sfuma nei ricordi di quello che era successo nell’albergo Eden, si introduce come un lampo nella mente del protagonista del secondo racconto, e allora tutto sembra un’altra cosa e la stessa: l’amico di oggi è come l’amico del passato, le facce di altri amici che lui gli presenta sono equivocamente come le facce di amici suoi che pure non ricorda più bene, le donne di una stanza sembrano prostitute anche se si dice siano attrici che stanno facendo le prove, e così via. Se il tempo degli avvenimenti fantastici, surreali o meravigliosi sembra sfumare nell’incertezza e nello sconfinamento, lo spazio dei due racconti è invece molto dettagliato e particolarmente referenziale: mentre la categoria di tempo diventa sempre più sfumata, quella dello spazio si concretizza sempre di più.
Come dicevo, il genere fantastico appare con una modalità diversa in “La piena”: un narratore omodiegetico riceve informazioni da diversi testimoni su un fatto soprannaturale e sui fenomeni a esso collegati, e la ricerca che ne consegue, a volte, mescola il fantastico con il poliziesco. La storia appare strutturata in un primo livello narrativo che si riferisce al momento nel quale si ricorda, e in questo ricordo si inseriscono diverse narrazioni secondarie, alcune in discorso diretto e altre in discorso indiretto, alcune che rispondono al principio di verosimiglianza interna e che si legano allo sviluppo “poliziesco” del racconto, e una che nel voler spiegare l’origine dell’evento fantastico diventa fabulazione esplicitamente finzionale, al punto che il narratore di essa, Aguilera, la definisce come “leggenda”. Risulta evidente che nella nouvelle, con la modalità caratterizzante i testi postmoderni, il fantastico si intreccia con altri generi (il poliziesco, il leggendario) citando esplicitamente il testo che ha fornito il motivo “straordinario”: Moby Dick.
Il fenomeno soprannaturale o strano non irrompe nella scrittura in maniera imprevista: lo scrittore lo inserisce molto gradualmente nella narrazione. Prima lo suggerisce in maniera indiretta, mostrando come il narratore si vedesse camminare nelle immagini televisive «lungo una superficie bianca e umida»; il lettore ancora non sa cosa sia quella superficie caratterizzata dal colore bianco e dall’umidità, ed è possibile che non presti attenzione a questo indizio, visto che il narratore sembra renderla analoga alla neve quando aggiunge che si vedeva «come un alpinista in cima a una montagna».
E dopo che l’eccezionale straordinarietà dell’evento va diluendo nella quotidiana organizzazione turistica l’aspetto sinistro che l’aveva connotata inizialmente, il narratore, attraverso una visione, sposta la perturbanza del fantastico alla risoluzione di un enigma poliziesco.
In Carlos Dámaso Martínez il genere fantastico si presenta modulando alcune varianti: se tutte le narrazioni, eccetto “Il resoconto impossibile”, si sviluppano dentro l’ambito familiare e conosciuto, ciò che è minaccioso e perturbante è come se in alcuni racconti si fermasse, proiettando soltanto un’ombra sulla soglia del paradigma del nostro mondo. Il genere fantastico implica il districare una matassa, dispiegare un groviglio la cui materia ha lasciato una serie di indizi perturbanti nella narrazione, sebbene questo dispiegamento porti non a una conoscenza, ma a un blocco conoscitivo. Tuttavia l’impulso narrativo che il fantastico ha dato allo sviluppo del racconto continua a funzionare, perché nella seconda parte del testo c’è uno spostamento dello sguardo del narratore verso un altro enigma, che inaugura un’indagine poliziesca
Attraverso questa maniera di portare avanti lo sviluppo narrativo di “La piena”, Carlos Dámaso Martínez mette in discussione le categorie tradizionali del fantastico, mentre con altri racconti (“Il resoconto impossibile”, “Incontri velati”) si sofferma su tematiche tradizionali del fantastico (come la vita nell’aldilà, il doppio e l’annullamento della temporalità), o piuttosto (ne “I giorni dell’Eden” e “Come una visione”) ravviva l’erotismo su cui si fondava un romanzo fantastico come Manoscritto trovato a Saragozza, lasciando il lettore su una soglia incerta tra il passato e il presente, la verità e la menzogna”.

martedì 20 dicembre 2011

Istantanee d’Inquietudine - anteprima

La strega


...Sazia dopo essersi mangiata Hansel e Gretel, abbandonò in tutta fretta la casetta di cioccolato per accorrere al palazzo di una bella principessa e consegnarle un fuso che la fece addormentare, da lì alla casa di una certa Cappuccetto dove la informarono che arrivava tardi e che al suo posto avevano messo un lupo, correndo raggiunse il bosco per trovarsi con Biancaneve e darle una mela avvelenata… A casa, si tolse le pesanti scarpe, e mentre riposava sulla sedia a dondolo pregò dio che arrivasse presto il realismo…

A volte le streghe si stancano del loro lavoro e a volte reale e fantastico s’intrecciano in nodi difficili da districare. A volte chi legge può perdersi in labirinti di luce e ombra e non saperne più uscire.  Spesso nei racconti di Norberto Luis Romero tutto questo può succedere.
Norberto Luis Romero, autore di questo microracconto, è nato a Córdoba, Argentina, nel 1951. Dal 1975 vive in Spagna. Scrive racconti e romanzi, oltre a essere regista. I suoi racconti sono pubblicati su prestigiose riviste e antologie in Spagna, Argentina, Messico, Cile, Perù, Canada, Stati Uniti, Italia, Francia e Germania. La sua opera ha ricevuto numerosi riconoscimenti sia per lo stile diretto e icastico, sia per la tematica audace e non convenzionale.
Un’antologia di suoi racconti intitolata Istantanee d’Inquietudine uscirà prossimamente nella collana Gli Eccentrici (primo volume della collana "La piena" di Carlos Damaso Martinez) della Edizioni Arcoiris.


Dajana Morelli

lunedì 19 dicembre 2011

Consigli per i regali di Natale II: Una fenomenologia dell'assenza

Tra Le città invisibili che Marco Polo descrive a Kublai Khan, ce n’è una che non tocca terra ma è sospesa tra le nubi per mezzo di altissimi trampoli, perciò “chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato” (Calvino, 2005). I cittadini, ritiratisi lassù con tutto l’occorrente per vivere, di rado si mostrano sulla terra. “Tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odino la Terra; che la rispettino al punto d’evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza” (ibidem). Gli abitanti di Bauci sarebbero dediti insomma ad Una fenomenologia dell’assenza, per riprendere il titolo dello Studio su Borges con cui Livio Santoro inaugura la collana “La battaglia dei libri” delle Edizioni Arcoiris; continuando l’analogia, si potrebbe leggere anzi il lavoro di Santoro come un ideale invito agli abitanti di Bauci, perché ridiscendano sulla terra e pongano la contemplazione della propria assenza a fondamento d’una nuova città.
Come dichiarato dal titolo, si tratta d’una rilettura dell’opera di Jorge Luis Borges in chiave filosofica, legittimata peraltro dall’assunto dello scrittore secondo cui la metafisica, come la religione, costituisce un ramo della letteratura fantastica. Santoro rintraccia dunque nella narrativa borgesiana un pensiero coerente, alla cui origine individua il “commiato dall’ontologia” consumato dalle correnti filosofiche del Novecento, l’abbandono cioè “della questione dell’Essere […] per impraticabilità”; ne deriva un soggetto che ha perduto la tradizionale possibilità d’ancorarsi agli universali e si scopre perciò privo di fondamento ― similmente all’abitante di Bauci che, lasciata l’apparente solidità della terra, si ritrova sospeso per aria. Un borgesiano dalla lunga esperienza qual è Blas Matamoro, nell’introduzione che impreziosisce lo studio, riconosce tuttavia che “al centro di questo libro c’è un problema etico: può costituirsi eticamente un soggetto privo di fondamento? […] Di conseguenza – chi lo avrebbe mai detto – è una scommessa filosofica quella che Santoro trova in Borges”. La fenomenologia dell’assenza che l’autore applica e al tempo stesso rileva nell’opera dell’argentino, infatti, non si risolve affatto in un ricorso al pensiero debole o ad una postmoderna estetica dell’effimero, delineando al contrario la possibilità d’un soggetto che proprio sulla rinuncia dell’ontologia sia in grado di fondare un nuovo modello etico – detto altrimenti, d’un abitante di Bauci che sulla base dalla contemplazione della propria assenza sappia escogitare una diversa forma di presenza.
Lo studio, strutturato in dieci capitoli, ruota attorno al tema del rapporto tra soggetto tempo e spazio, incisivamente raffigurato come un elastico che lega tre pietre, le quali, “quanto più vengono scagliate lontano, con tanta più forza tornano indietro”. La questione è allora sciogliere il nodo ovvero ripensare il correlato ontologico che stringe le tre dimensioni, ciò che appunto, con alterni risultati, hanno tentato alcune correnti filosofiche del Novecento (per esempio la fenomenologia e l’esistenzialismo, che Santoro incrocia efficacemente con lo storicismo critico, trovando poi un punto di raccordo nel pensiero di Karl Jaspers). Un intento questo che sembrerebbe condiviso da Borges, nella cui narrativa emerge infatti un legame tra soggetto spazio e tempo del tutto peculiare.
Con un tocco d’enfasi, potremmo sostenere che il Borges di Santoro prende le mosse da un atto prometeico, rubando cioè l’idea dall’empireo platonico per affidarlo all’uomo, o più precisamente ad ogni singolo individuo: “È proprio nel misconoscimento dell’èidos nella sua versione di universale in favore di un suo riconoscimento in una versione soggettiva che è racchiuso […] uno dei progetti più sottili dell’opera borgesiana”. Ne risulta ciò che Friedrich Nietzsche, negata l’esistenza dei fatti in favore delle interpretazioni, definiva “prospettivismo”; il rischio d’un conseguente ritorno all’antropocentrismo o ad una nuova ontologia positiva, basata stavolta sul soggetto, viene scampato però per il tramite degli oggetti. La narrativa di Borges è in effetti ‘popolata’ di oggetti che veicolano visioni prospettiche della realtà, altrettanto legittime di quelle umane: basti pensare al solo caso dello specchio. In questo modo, Borges giunge a diffondere “il tramite autoriale della realtà, estendendolo al di là dell’uomo e considerandolo come un insieme di elementi eterogenei […] concorrenti nella definizione di una serie indefinita di linee prospettiche”.
Simile è la soluzione prospettata al problema del tempo, la cui presunta universalità viene convogliata nelle versioni soggettive dei singoli individui. Al proposito, va segnalato come Santoro chiarisca la specificità con cui i personaggi borgesiani esperiscono il tempo grazie ad un accostamento inaspettato quanto funzionale, quello cioè con gli psicotici di Eugène Minkowski e Ludwig Binswanger. Come il malinconico binswangeriano risulta incapace di muoversi liberamente sull’asse temporale biografico restando invece vincolato ad un particolare momento, così per esempio Emma Zunz rimane imprigionata nel progetto di vendetta del padre. A differenza dell’esperienza dello psicotico, però, quella del personaggio borgesiano non è utile a mostrare per contrasto una temporalità ‘autentica’, e cioè universale e scomponibile in parti, quanto invece a denunciarne l’intima inadeguatezza.
Il personaggio borgesiano, insomma, non è chiuso in alcuna forma di solipsismo o di autismo ma, al contrario, diffonde la propria singolare prospettiva nel mondo circostante. Esattamente ciò che succede nel caso di Tlön, che Santoro richiama a dimostrazione di come una creazione immaginaria non solo influisca sulla realtà, ma possa giungere addirittura a scalzarla. Il tramite attraverso cui le prospettive dei singoli si fanno intersoggettive e al tempo stesso vengono convalidate è la lingua, convenzionale, arbitraria e situata per Borges, eppure “foriera di una sorta di legittimazione ontologica (dunque […] di un compromesso ontologico)”. Il risultato è allora l’assunzione “sullo stesso piano di legittimità delle diverse interpretazioni del reale”, il superamento cioè della “mutua esclusività delle possibilità, ovvero […] uno dei punti più caratterizzanti della scienza positiva”. In una parola, l’Aleph, così definito da Santoro: “l’immagine eidetica che racchiude in sé una regolazione non gerarchica degli enti e, prima ancora, delle rispettive immagini eidetiche di questi ultimi”.
Giungiamo così all’ultima pietra da sciogliere, ossia allo spazio, che Borges sembrerebbe interpretare in maniera opposta al pensiero novecentesco ma conseguente rispetto alla propria concezione del tempo. Non è infatti quest’ultimo a costituire un’ulteriore dimensione dello spazio, ma, a quanto dimostra il ricorrente tema del labirinto, è lo spazio ad essere ‘temporalizzato’: “Borges […] trasferisce la costituzione frammentaria del labirinto anche sulla piattaforma della temporalità, dispiegando così il concetto […] dell’interminabile ed eterno della ricerca, che è tale in quanto oltrepassa […] il tema del tempo e dello spazio”. La ricerca, “archetipo degli archetipi”, sussume dunque le tre dimensioni di soggetto spazio e tempo – una conclusione ancor più condivisibile da un punto di vista letterario, solo a considerare l’universalità del tema cavalleresco della quête. Finalmente disciolte, anziché disperdersi in direzioni diverse, si direbbe dunque che le tre pietre si riuniscano per fondersi l’una nell’altra.
È in ogni caso la ricerca a costituire il punto d’arrivo della lettura borgesiana di Santoro, che nelle ultime ed illuminanti pagine ricapitola il senso del percorso aprendo ad ulteriori possibilità di riflessione. A guadagnare risalto nell’opera di Borges non è tanto un raffinato scetticismo, quanto invece, inaspettatamente, la sua parodia: l’argentino giungerebbe in altre parole a “rivoltare lo scetticismo contro se stesso, al punto di infantilizzarlo e parodiarlo […]. In tal modo, non è mai assunta una sola delle versioni della realtà o dell’Essere […] di per se stessa, ma sono assunte tutte nella loro costitutiva infondatezza, nella loro assenza ontologica […], nella loro impossibilità di ridursi ad una pianta regolare”. Una diffusione di legittimità che si estende – ed è ciò che più conta – all’ambito della morale, dato che “alla ridefinizione della questione ontologica deve accompagnarsi giocoforza una ridefinizione generale della questione etica”. L’assenza di fondamenti, cui Borges fa seguire la validità delle prospettive dei singoli, anche in questo caso, infatti, chiama in causa l’individuo, o meglio la sua ricerca: “L’impalcatura teorica dell’opera di Borges sembra assumere i tratti di un tenace quanto virtuoso prospettivismo, in cui le versioni soggettive dei caratteri […] operano attraverso quello che con Foucault si potrebbe definire un determinato stile etico: questo stile, per lo stesso Borges, e per i suoi personaggi, è la ricerca”.
Tocchiamo qui uno dei maggiori pregi dello studio, e cioè l’inedito punto d’incontro tra Borges e Michel Foucault, grazie al quale Santoro mette in risalto l’uno alla luce dell’altro. Non che sia nuovo l’accostamento del filosofo al narratore, essendo stato incoraggiato per primo dallo stesso Foucault, né si tratta di autori che abbiano bisogno d’una rivalutazione, citati come sono a torto e a traverso. Il Foucault che Santoro ha come riferimento, però, non è affatto quello più frequentato o quello che, in una lettura di Borges, salta per primo alla mente. Non si tratta infatti del filosofo del discorso, dello storico del disciplinamento o dell’analista della biopolitica, quanto invece dell’ultimo e forse più trascurato Foucault, del teorico della “cura del sé” (Foucault, 2011). Dopo aver indagato l’evoluzione e il funzionamento delle tecniche di potere, Foucault si volge infatti allo studio dei modelli di soggettivizzazione, non certo per opporre semplicisticamente al potere l’individuo, che anzi ne è penetrato e di cui è partecipe, quanto piuttosto alla ricerca di vie attraverso cui possa tentare di liberarsi. Di qui l’attenzione alla cura del sé, ovvero alla cultura presocratica dell’estetica dell’esistenza, cui va riportato lo “stile etico” del Borges di Santoro. Tenendo ben presente però che il termine “estetica” non ha nulla a che fare con un qualche dandismo, riferendosi invece all’arte nel significato antico, più vicino all’artigianato che non all’accezione moderna; così come nello “stile” non andrà letta una ricerca del bello quanto l’espressione delle peculiarità d’un individuo. Secondo l’estetica dell’esistenza, infatti, era il singolo a dover dare forma alla propria vita, imprimendovi un ordine immanente e non imposto dall’esterno, e che si tenesse solo in virtù della sua coerenza interna; ne sarebbe risultata una morale indirizzata unicamente dal criterio personale, un’etica intesa appunto come stile.
Il Borges etico che risulta dall’incontro con il Foucault della “cura del sé” ha dunque un aspetto assai diverso da quello cui siamo abituati. Come ricorda lo stesso Santoro, infatti, “una delle interpretazioni più comuni dell’opera di Borges” si risolve nel delinearne la “natura assurda, congetturale, ma allo stesso tempo dichiarata”. Il che sarebbe condivisibile, a patto però che, come succede in questo studio, si faccia un indispensabile passo in avanti. Fermarsi al Borges onirico o cerebrale significa infatti relegarlo ad una raffinata letteratura d’evasione, o, peggio ancora, come Juan Rodolfo Wilcock in un articolo de L’Europeo del 1970, a doversi chiedere: Borges è reazionario? Mettere invece a confronto l’opera di Borges con il pensiero filosofico, interrogarsi in altre parole sull’origine e soprattutto sugli esiti della sconfessione borgesiana di qualunque solidità o fondamento ontologico, permette al contrario d’individuare una “sostanza affermativa della negazione”. Non diversamente, si direbbe, da quanto è possibile fare col pensiero di Nietzsche, qualora ci si rivolga a ciò che nel suo pensiero segue la pars destruens. Non è un caso allora che Santoro riconosca tanto nel pensiero di Borges quanto in quello di Foucault l’eredità del prospettivismo nietzschiano. Il Nietzsche sostenitore delle interpretazioni e il Foucault dello stile etico avrebbero infatti condiviso la soluzione che Borges, significativamente, suggerisce nei termini d’una riscrittura evangelica: “nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra”. In un celebre intervento pubblicato sul Menabò del 1962, ragionando sulla diffusione d’una “letteratura del labirinto gnoseologico-culturale”, Italo Calvino vi distingueva due opposte possibilità: “Da una parte c’è l’attitudine […] necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo” (Calvino, 2011a). Da quest’ultima e più ricorrente interpretazione Santoro contribuisce dunque a liberare l’opera di Borges, attribuendole invece il primo intento, riportandola cioè “dalla letteratura della resa al labirinto” alla “letteratura della sfida al labirinto” (ibidem). Si tratta d’una distinzione assai sottile, in quanto il modello del labirinto “può funzionare come sfida a comprendere il mondo o come dissuasione dal comprenderlo; la letteratura può lavorare tanto nel senso critico quanto nella conferma delle cose come stanno e come si sanno” (Calvino, 2011b). Tanto più complesso è decidere d’un “labirinto delle immagini culturali di una cosmogonia più labirintica ancora”, come Calvino definisce l’opera di Borges: al di là degli auspici qua e là emersi nella critica, c’era bisogno infatti di chiarire la posizione filosofica dell’autore prima di tentare di stabilirne la prospettiva morale. Colmata questa lacuna attraverso Una fenomenologia dell’assenza, la parola va restituita al lettore, perché “è l’atteggiamento della lettura che diventa decisivo; è al lettore che spetta di far sì che la letteratura esplichi la sua forza critica, e ciò può avvenire indipendentemente dalla intenzione dell’autore” (ibidem) – coerentemente però a quella di Borges, secondo cui “leggere […] è un’attività successiva a quella di scrivere: […] più civile, più intellettuale” (Borges, 2001).

Giovanni de Leva

giovedì 15 dicembre 2011

Il labirinto dell'identità ne El cantor de tango di Tomás Eloy Martínez

Nelle prossime settimane arricchiremo il nostro catalogo con un libro scritto da Andrea Masotti e che sarà il secondo volume della collana La battaglia dei libri (primo volume della collana è "Una fenomenologia dell'assenza. Studio su Borges" di Livio Santoro).

Andrea Masotti (Verona, 1982), dottorando in Letterature Straniere e Scienze della Letteratura presso l'Università degli Studi di Verona. Si occupa di letteratura ispanoamericana, in particolare la sua attività di ricerca è rivolta all'opera di Roberto Bolaño e alla letteratura argentina del Novecento.

"Esistono svariate maniere di perdersi, di smarrire la strada, e ne El cantor de tango di Tomás Eloy Martínez queste maniere vengono passate tutte in rassegna, sulla pelle del povero protagonista e dei vari personaggi, una a una. La presente analisi tenta di scandagliare le dinamiche che questi smarrimenti attivano nella complessa trama del romanzo, e i meccanismi letterari in gioco dietro di esse, tra le righe della narrazione.
Tutta la storia si sviluppa sul sottile e sempre critico confine che divide il mondo reale dal mondo finzionale, secondo una manipolazione consapevole e ricercata, da parte dell'autore, degli elementi che fanno parte dell'uno e dell'altro: lungo questa linea si dipanano le vicende in analisi, la lunga ricerca di Bruno Cadogan, accademico nordamericano, destinata a concludersi in un totale fallimento.
In questo si rileva il primo grande paradosso del libro di Eloy Martínez, che si struttura come il resoconto di una ricerca, di una quête iniziatica al contempo interiore ed esteriore, ma che si rivela essere il suo esatto contrario: un itinerario verso la progressiva e inesorabile perdita di tutto, della strada, di una solida identità, degli stessi obiettivi per i quali la ricerca aveva avuto inizio.
Quello del protagonista è un inseguimento duplice, il cui primo oggetto è il cantor de tango che dà il titolo al romanzo, un cantante al contempo leggendario e misconosciuto, le cui imprevedibili e itineranti esibizioni costituiscono un enigma che riguarda l'intera città (Buenos Aires) e il suo passato. La seconda meta, come il cantor sempre solo sfiorata, quasi intravista, e mai raggiunta, è l'aleph, il fantastico prodotto della fantasia letteraria di Borges.
Nel tentare di ricostruire i non facili passaggi che scandiscono questo percorso di dissoluzione, questo processo che in qualche modo distorce e ribalta il tradizionale iter dell'eroe alla scoperta di sé (delineando così una sorta di romanzo di de-formazione), la presente analisi si appoggia soprattutto a due autori: oltre al già citato Jorge Luis Borges, il secondo polo ˗ richiamato fin dall'epigrafe iniziale dal libro stesso ˗ è Walter Benjamin.
Sulla scorta dei due scrittori ˗ dei due pensatori ˗ si intuisce poco a poco ciò che sta dietro le due infruttuose ricerche di Cadogan, ovvero la terza ricerca che le include e le supera: lungo tutto il romanzo viene sviluppata un'implicita riflessione sull'identità, in particolare quella del narratore-protagonista, sfaccettata, sfuggente e inafferrabile come lo sono l'aleph e il cantor, e come loro fondamentalmente divisa tra la realtà e la finzione.
Esaminando e ricostruendo gli ingranaggi che muovono tali complicati incastri, questo saggio descrive in ultima analisi la forma del romanzo stesso, riassumibile soprattutto, come suggerisce il titolo, nella figura del labirinto. È un labirinto Buenos Aires (nello spazio, ma anche nel tempo), è un labirinto - dentro Buenos Aires - il percorso che disegnano il cantor e il suo inseguitore, è un labirinto il gioco di poroso intercambio tra la dimensione reale e quella finzionale. Ma oltre il labirinto, a complicarlo e a perfezionarlo interviene un'altra forma, che implica un altro movimento dei fatti, e della lettura e della scrittura stesse.
Per arrivare a capire di quale configurazione si tratti, l'analisi parte da quella che fin dall'inizio è forse la struttura più evidente: il libro pare in qualche modo diviso in due, sorretto da un andamento binario, secondo il quale due diverse dimensioni sono in continuo dialogo e tutto il resto - gli eventi, il protagonista, noi stessi lettori - rimane in mezzo, sul confine. Da una parte vi è sempre la realtà, ossia ciò che si suppone e si ammette essere la realtà nel contesto finzionale del romanzo (un romanzo, utile ricordarlo, che a tutta prima pare rispondere ai crismi del realismo, senza ambiguità di sorta, ambientato in una città vera durante fatti storici autenticamente avvenuti). Dall'altra parte, di volta in volta, si confrontano con la realtà e a essa si oppongono tutte le varie declinazioni dell'“irrealtà”: la dimensione letteraria, la dimensione cinematografica, la dimensione artistica in generale. Ma anche, in misura minore, l'allucinazione, lo stordimento dei sensi, quella zona incerta e anodina che corrisponde allo smarrimento.
È nel corso di questo esame che la prospettiva si sposta all'impostazione “meta-riferita” del romanzo, quale luogo di per sé preposto ad accogliere e proporre la finzione: tutta l'implicita riflessione su questo intercambio realtà/letteratura prende forma per forza di cose dall'altra parte del confine, nella dimensione letteraria, e l'oscillazione che l'intera narrazione continua a subire - senza risolversi a terminare, ad assestarsi dall'una o dall'altra parte - conosce il suo punto topico (la piega definitiva) nella parte finale, quando il protagonista si rivela essere anche il materiale scrittore dell'intera vicenda, del libro stesso.
Un'altra angolatura proposta nel saggio, dalla quale è altrettanto possibile individuare un'impalcatura duplice, un dialogo bidimensionale, è quella che riguarda il tempo del romanzo: la città esiste anche in questo caso su due livelli, paralleli e tangenti, ovvero il tempo presente e il tempo passato.
Interviene in questo caso il significativo sguardo dell'autore del romanzo sul vivo e ambiguo rapporto tra storia e storiografia, quest'ultima particolarmente permeabile alle intromissioni del fantastico, del letterario, del finzionale: Eloy Martínez si era già occupato di questo in testi saggistici e in più di un romanzo, su tutti va senz'altro menzionata la sua opera di maggior successo, Santa Evita.
Il labirinto costituisce quindi il nodo principale del saggio, e a esso è dedicata la sua parte centrale: qui si sviluppa il parallelo, nel romanzo tanto fondamentale quanto sommerso, tra le vicende narrate e il grande archetipo cretese. Lettura che si applica a tutti i personaggi, secondo la quale Bruno Cadogan percorre la traccia delle sue peripezie con il passo –contemporaneamente - di un mitologico Teseo e di un flâneur benjaminiano.
L'ultimo aspetto esaminato è quello linguistico: affrontando più direttamente la questione delle modalità compositive del romanzo, si propone un'analisi della lingua di ogni personaggio. Esiste nel libro una polifonia che, lungi dall'essere un mero artifizio formale, rivela un preciso valore anche per gli equilibri stessi della storia. La maniera di esprimersi del mai uguale io narrante, le lingue particolari che nei diversi contesti affiorano (la più significativa è la lingua dei tanghi antichi usata dal cantor), la stessa nominazione di tutti gli elementi del romanzo (onomastica, odonomastica), tutto riconduce all'ultimo grande labirinto, all'impalcatura stessa de El cantor de tango: la scrittura, creazione e distruzione, catarsi e prigionia a un tempo, filo di Arianna e inganno di Dedalo".

Andrea Masotti

lunedì 5 dicembre 2011

Consigli per i regali di Natale I - Napoli barrio latino

Esistono saggi sull’immigrazione in Italia, con cifre alla mano, statistiche e grado di incidenza della comunità esterna sulle popolazioni autoctone. Esistono poi le storie di immigrazione, che rivelano viaggi massacranti, siano essi in mare o in aereo (perché di un viaggio è massacrante anche ciò che lo precede e lo segue), integrazioni difficili, vite familiari e sociali con tante difficoltà, passaggi burocratici e molto altro. Napoli Barrio Latino – Migrazioni latinoamericane a Napoli di Maria Rossi (Edizioni Arcoiris - € 12,00) è entrambe le cose, anche se nello scenario più ristretto ma non meno vario e complesso dell’emigrazione/immigrazione dall’America Centrale e Meridionale. In più questo libro, che intervalla dati a racconti ed opinioni delle persone intervistate è anche uno dei pochi volumi sull’immigrazione con un occhio femminile. Sono moltissime, infatti, le donne a raccontare le loro esperienze di migranti, le difficoltà di ricongiungimento con i loro cari o i tentativi di costruirsi una nuova vita con nuove persone, cercando caparbiamente di sfatare il duplice tabù di donna latinoamericana come “servizievole” o “caliente”. Se dunque la prima parte del libro parla di un fenomeno in continua espansione in un paese che continua sotterraneamente a rifiutarlo o considerarlo un effetto collaterale di rivoluzioni e crisi mondiali a fronte di un immigrazione latinoamericana ancora giovane ma sempre più forte, soprattutto fra le popolazioni andine, la seconda parte è uno spaccato della vita di tutti i giorni, senza buonismi sull’accoglienza, l’integrazione e la commistione di culture, ma anche senza l’esasperazione della polemica sul razzismo, le difficoltà economiche ed occupazionali. Capiterà spesso di trovare frasi di nostalgia e di disagio verso la gente e le situazioni di tutti i giorni ma è questo che da ancora più dignità ad una comunità di persone che cerca situazioni stabili ed occupa a volte professionalità decisive negli ospedali, nei ristoranti e perfino negli uffici (e perfino i dati sull’imprenditoria sono sorprendenti). Tutto questo, nello scenario di Napoli, città che accoglie ma che nella sua continua instabilità sottopone l’immigrato ad una avventura giornaliera, punto di ritrovo, ma anche approdo provvisorio. “Napoli l’ho fatto mio. Lo rispetto e sono molto dispiaciuta adesso per come sta diventando…Per le nuove generazioni io sono ottimista“, dice una donna peruviana ed è l’emblema di un libro che parte dalle cose semplici ed attraverso queste, quasi come in un collage di piccole storie ci offre su un piatto la realtà, nel modo più duro, ma anche più sincero, dimostrandoci tutti i difetti ed i pregi della latinità (la nostra e la loro), le differenze fra culture, generazioni, modi di vivere ed il nostro essere, tutto sommato, tanti paesi in un solo grande paese.

L’inchiostro sangue del Rio della Plata traccia derive esistenziali e sociali

Se avete una “straordinaria passione per i paradossi dall’equilibrio instabile, come piramidi poggiate sulla punta”, la lettura che fa per voi, in amaca e in ogni luogo, è Inchiostro sangue, antologia di racconti del Rio de la Plata corredata da saggi, a cura di Loris Tassi e Antonella De Laurentiis. Il libro è un assaggio, uno ‘sfizio’ croccante e sapido; piacevole scoperta per chi si apre al mondo della letteratura catalogata come poliziesca, ma abbiamo ragione di credere anche per i lettori di consumata competenza. Il poliziesco: genere ‘ferroviario’, secondo qualcuno, o balneare secondo un’altra variante consolidata; gioco fantastico in forma di crimine rompicapo da Borges in poi. Poliziesco è generico: i critici,  scrive Loris Tassi (docente di lingue e letterature ispanoamericane presso l’Orientale di Napoli) nel suo saggio narrativo in appendice, “sono d’accordo nel ritenere che le correnti principali del poliziesco siano tre: il romanzo enigma, il romanzo di suspense e il romanzo noir”. Abbiamo tante di quelle categorie in testa da far spavento: un’antologia simile è un buon pretesto per fare ordine in zona ‘giallo’ e capire che “anche se viviamo ‘sotto l’influenza calmante della letteratura standardizzata’, anche se i romanzi polizieschi confezionati con lo stampino si sprecano, molti scrittori latinoamericani dimostrano che è possibile riattivare il genere con infinite e sempre più complesse versioni e perversioni”, secondo l’avvertenza ancora di Tassi. Non c’è solo il Dupin di Edgard Allan Poe, il grande iniziatore, il creatore del genere secondo Borges ma anche del suo lettore specifico, sospettoso, guardingo, critico; non c’è solo il più noto ai cultori, il detective Marlowe di Raymond Chandler, o il filone anglo centrico classico, l’Holmes di Conan Doyle, l’Hercule Poirot o la Miss Marple di Agatha Christie (per restare ai più famosi).
L’Argentina è terra feconda che ha prodotto e produce una originale e efficace produzione poliziesca, prima di Borges e dopo. L’antologia sta a testimoniarlo e si scopre curiosamente leggendo i racconti e inoltrandosi poi nei saggi integrativi, che ci sono stati scrittori di polizieschi d’attitudine e costruzione borgesiane prima di Borges; scrittori che hanno usato un genere considerato marginale o minore come un pretesto o ‘salvacondotto’ per incanalare di volta in volta un gioco intellettuale, un’arte sublime e fantastica (come poi Borges lo intese) , la fotografia della realtà, la denuncia sociale per sfuggire alla censura, dittatoriale e non; la voglia di trasgredire a logiche date e scovare la libertà d’espressione attraverso lo scarto dalla norma.  Apre l’antologia il racconto L’indagine (primo racconto poliziesco pubblicato in lingua spagnola nel 1897,  segnala nel suo saggio Andrea Pezzè) di Paul Groussac, scrittore franco argentino. Questo racconto mostra che il poliziesco è un ottimo modo di fare meta letteratura e realizzare avventure mentali. La trama è raccontata nel corso di una gita in barca da un ex commissario di polizia a Buenos Aires che ha la “straordinaria passione per i paradossi dall’equilibrio instabile”.  Il racconto riferito dal narratore consiste nel fatto che la protagonista è costretta a inventare lei stessa una trama fasulla e non perché colpevole. Non copre infatti il delitto della madre adottiva, ma copre la sua vita, o onorabilità. Caso vuole che quando la madre adottiva viene uccisa nella casa in cui convivono, ha ricevuto clandestinamente il suo amante. Siamo in costruzioni meta letterarie dove il delitto e la risoluzione dell’enigma sono elementi non prevalenti quasi: valgono come congegni per interessare il lettore e poi trasportarlo altrove, tra i fili che manovrano l’invenzione stessa, in sala macchine. Così è il racconto Il triplice furto di Bellamore dell’uruguaiano Horacio Quiroga, pubblicato nel 1903. Questo tal Bellamore è accusato da un antagonista che non ha niente di meglio da fare, tale Zaninsky, di aver compiuto tre furti in tre banche. Il narratore confuta le accuse e lo scagiona, senza indicare il vero colpevole. Allora in che consiste la trama e il punto di svolta? In realtà è un curioso racconto, “uno dei primi polizieschi sul poliziesco, un’opera che è la poetica di una narrazione”, chiarisce lo studioso Andrea Pezzè.
Scantona e trasgredisce regole proprie del genere La pazza e il racconto del crimine di Ricardo Piglia, racconto scritto nel 1975 (guarda caso quando l’Argentina sta sprofondando nella dittatura) incentrato non tanto sul crimine, ma sul fatto che si può dire la verità su un crimine solo attraverso la finzione, la scrittura. Un linguista prestato al giornalismo risolve un caso di omicidio decifrando le frasi sconnesse di una pazza che svelano l’identità dell’assassino. Il direttore del giornale rifiuta di pubblicare lo scoop per evitare problemi con la polizia: la verità non può essere messa al servizio della giustizia. L’unico sistema di svelarla è trasformarla in letteratura, ovvero ricorrere alla finzione di un racconto poliziesco. Il tipo dell’argentino Mempo Giardinelli, è un uomo che sa di stare per essere freddato da un killer e non fa niente per sottrarsi alla fine, anzi fa il resoconto mentale a freddo dell’avvenimento mentre è seguito nel tragitto verso casa perché “la morte è un fatto quotidiano”. Finché a casa, compie i soliti gesti,  l’unico cruccio è accorgersi che lo slip ha l’elastico rotto,  sente i passi sulle scale, apre una birra e anche la porta. La prima cosa che vede è la pisola col silenziatore. Ed è anche l’ultima. Non conta tanto chi uccide e perché, quanto il mandante; vale la suspense e la minaccia incombente, la condizione di precarietà e pericolo in una società corrotta dove non c’è salvezza. O ci si salva perdendo la vita nei modi più bizzarri: in Inchiostro sangue di Juan Sasturain si scrive col proprio sangue la canzone di dedica all’amata per riconquistarla, ma il gioco eccede la misura e si muore. Se è così che vanno le cose, allora, caso argentino a parte, se il poliziesco declinato in vari modi contiene il mondo e la sua complessità, si spiega allora anche l’inflazione del genere (fino alla pattuglia di scandinavi la cui la sovrabbondanza produttiva di noir ha esternato la corrente pulsionale di distruzione e morte, oltre la facciata di società civile e ‘criteriata’ purtroppo confermata dalla cronaca dei giorni scorsi). Profeta o premonitore, Jean Patrick Manchette (fautore del noir francese contemporaneo, morto troppo presto, citato da Loris Tassi), l’ha annunciato all’alba del duemila: “il giallo è la grande letteratura morale della nostra epoca ed è la letteratura della crisi”.